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vendredi, 21 novembre 2008

Il termine "Occidente" nasconde un equivoco pesante

 LA VIA CHE PORTA IN ALTO E QUELLA CHE PORTA IN BASSO
SONO LA STESSA IDENTICA VIA (Eraclito)

Il termine “Occidente” nasconde un equivoco pesante.

Nell’anno 2008, non si è più agli inizi del secolo XX, quando ancora uno Spengler (nella foto in basso) poteva parlare della crisi dell’Occidente come fase terminale di un’involuzione ciclica mondiale. O un Massis poteva invocare la défense de l’Occident.

Oggi non c’è più alcun Occidente da difendere, ma ce n’è uno da cui difendersi.In questi cento anni, la nostra civiltà ha visto bruciare la sua ultima grande possibilità, quella profetizzata appunto da Spengler come fase faustiana, cesaristica, che in un ultimo sforzo di interiore potenza sarebbe sorta dal ventre europeo come antidoto alla sincope finale della civiltà dell’uomo bianco, causata dal progressismo.

Alla metà del Novecento, al culmine di una crisi comatosa mondiale risolta dalla violenza bruta, si è potuto assistere allo strangolamento nella culla proprio di questo ciclo storico faustiano appena insorto, che il filosofo tedesco aveva vaticinato in qualità di ultima e conclusiva manifestazione creativa dell’anima europea. Tale crimine è stato consumato precisamente per mano di un’appendice occidentale, non-europea e anzi anti-europea. La mano che ha soppresso l’Europa in quanto civiltà espressiva e centro di potere individuato, proveniva da Occidente.

Quest’appendice,
che ha impedito al nostro continente di riappropriarsi sul ciglio dell’abisso del suo destino e del suo spirito – secondo vie che forse avrebbero soltanto dilazionato il tracollo, ma probabilmente di secoli – ha rappresentato, sin dal suo primo formarsi nel secolo XVIII, una precisa congiura contro l’Europa e tutti i suoi patrimoni culturali, che dalle profondità della protostoria erano giunti sostanzialmente impregiudicati fino nel cuore dell’età contemporanea.

Parliamo infatti dell’America, di quel bacino di formidabili energie distruttive infuse nel calderone progressista, giunte a maturazione utilizzando i letali ingredienti del puritanesimo, del biblismo, del liberismo e del materialismo capitalista: dalla micidiale mistura è uscito un cocktail infernale che, fatto bere a forza ai popoli europei dopo il 1945, ne ha garantita la rapida liquidazione come entità culturali e politiche storicamente individuate.

Quello che è nel frattempo avvenuto è stato infatti il tramonto dell’Europa e l’insediarsi in suo luogo dell’Occidente made in USA. L’Occidente, nel senso geografico e politico di America, è ciò che è uscito in qualitmercury_dime_reverse US renzagliaà di solo vincitore dalla lotta tra l’onore dell’appartenenza, valore di fondazione senza il quale i nostri popoli non avrebbero potuto darsi una forma, e il disonore della disgregazione affidata al culto totemico del denaro e dell’individualismo di massa.

Chi confonde l’Europa con l’Occidente, cioè con ciò che oggi coincide con l’America, non ha compreso il dramma della civiltà bianca. Chi giudica l’Europa e l’America come un’unica civilizzazione accomunata da comuni linguaggi esistenziali e da una comune volontà di destino, mostra di non avere la sensibilità che occorre per distinguere la creatività dalla distruzione, l’ordine dal caos, l’ideale dal materiale, il sano dal malato, il bello dal brutto.

Si tratta di due antitesi, di due antropologie, di due monadi.

Oggi l’Europa è in coma perché sottoposta alle radiazioni americane. Il vampirismo si è ormai compiuto, e nuove costellazioni extra-europee e anche extra-occidentali già sorgono all’orizzonte, preparando una sicura fase di regolamenti di conti con gli stessi Stati Uniti, un colosso vacillante che, se privato della forza materiale, rappresenta un vuoto inespressivo tutto sommato molto fragile.

 Scriveva Georges Bernanos nel 1947 che

«l’Europa è tramontata nel momento stesso in cui ha dubitato di sé, della sua vocazione e del suo diritto […] e questo momento ha coinciso con l’avvento del capitalismo totalitario», sancendo in questo modo proprio la vittoria del denaro contro l’onore.

Ma chi mise nel cuore europeo il tarlo roditore del dubbio di sé, cosa minò l’antico senso europeo della sua vocazione e del suo diritto in faccia al mondo? Non furono proprio l’ideologia dei diritti individuali e quella del capitalismo calvinista, non furono l’illuminismo e il razionalismo sposati al liberismo inglese, al biblismo millenarista delle sette protestanti che, una volta lasciati fermentare nello spazio del Nuovo Mondo, produssero l’odio per la tradizione europea, la diffamazione del nostro passato, l’incomprensione per la nostra storia e per le nostre realizzazioni sociali?

Quest’informe viluppo di nevrosi sotto maschera moderna, costituito dai riformatori fondamentalisti, fino a quando rimase un caso clinico di minoranze europee ben controllate e circoscritte dal discredito generale (le allucinazioni anabattiste, i deliri di un Giovanni di Leyda circa il “Regno di Dio” in terra, le psicosi settarie dei profetismi biblici, il concetto di capitale usurario come fonte di benedizione divina…) non costituirono alcun pericolo reale per i popoli europei. Episodi marginali, di cui furono in molti allora a non accorgersi neppure.

Ma quando tutta questa schiuma di allucinati e di malati mentali, di invasati di versetti biblici, insieme ai tagliagola, ai criminali e agli asociali fuggiti da tutta Europa, prese a sbarcare a frotte sulle coste americane, là dove non c’era l’Europa con la sua cultura a fare da involucro, proprio in quel momento il destino europeo si compì.

Ci vollero due-tre secoli di gestazione, ma poi la risacca, montata in uno spazio reso deserto dall’etnocidio dei nativi americani e ripopolato con lo schiavismo e il fuoriscitismo dei peggiori elementi espulsi dai popoli europei, è ritornata da noi come un pendolo dannato, sotto l’etichetta di “ideologia americana”. Qualcosa che è stato sin dall’inizio ben deciso a fare a pezzi ciò che era rimasto della vecchia Europa. I lugubri “padri pellegrini” sono tornati di qua dell’Atlantico come un turbine di sventura, hanno riportato indietro con sé il dono avvelenato delle loro distorsioni mentali, ma potenziate in ideologia di potere mondiale, e in più sorrette da una potenza industriale mai prima vista.

Quelli che erano poveri alienati nel Seicento, nel Novecento si sono potuti presentare ai popoli europei addirittura come i “liberatori”, i portatori del “benessere”, i garanti di una “nuova frontiera” di riscatto materiale e morale. Lo sguardo alienato, quelle occhiaie da invasato febbricitante di visioni veterotestamentarie che ebbe ad esempio un Lincoln (un uomo con problemi di disagio mentale acclarato: riferiscono i biografi che fosse una specie di semidemente lombrosiano, che non mancò di suscitare perplessità nei suoi stessi contemporanei), ha potuto diventare una faccia da “liberatore”.

L’icona, il marchio stesso dell’America.
Al di sotto di Hollywood e di Mc Donald’s corre un fiume di tetra e morbosa volontà rieducatoria, quelle tirate quacchere sul destino di dominio del mondo in nome di Jeovah, quel maledire la diversità, quel sentirsi “eletti” alla salvezza…un’anima fobica e contorta, tutta avvolta dalla sindrome di rappresentare il bene e pertanto di poter infliggere agli altri il male. È la fiaba del lupo travestito da agnello. È quello sbaglio della storia che si chiama Stati Uniti.

Nel Novecento non sono stati più i pochi disadattati del Seicento a straparlare di Nuova Israele nella penombra di qualche taverna massonica del New England: stavolta era una potenza mondiale, era la modernità in persona, un’organizzazione formidabile, risoluta a volgere le elucubrazioni dei padri predicatori evangelisti in un lucido progetto di dominazione universale.

Con i mezzi dell’etnocidio metodico prima e dell’annientamento coscienziale propagandistico poi, col metodo mai smesso del ricatto e dell’intimidazione, è stato strappato all’Europa il diritto di essere se stessa, relegandola al rango di provincia cui imporre liberamente i propri voleri. L’Occidente ha minato alle fondamenta il diritto dell’Europa a rimanere fedele ai propri simboli, salda al suo posto, come andava facendo da un paio di millenni.

In questo quadro, cosa può ancora significare volgere lo sguardo a ciò che l’Europa è stata nei secoli?

Cosa può ancora dire ai popoli europei di oggi il richiamo alle loro tradizioni di ineguagliata cultura, ai loro primati di sapere e di volere, ai loro fondamenti di identità e di legame?
Ha ancora un senso parlare di civiltà europea, dato che possiamo solo riferirci a un passato che è stato rinnegato e irriso dai nuovi dominatori occidentali, col consenso prima estorto e poi spontaneo delle nostre élites culturali e delle masse? Esprimere la parola di verità nel dominio totale della confusione e dell’invertimento dei significati è operazione probabilmente inutile. Ma proprio per questo va ugualmente tentata.

La lotta novecentesca, a cui l’Europa non è sopravvissuta, è stata essenzialmente una lotta tra l’Ordine e il disordine.

Un mondo di forme e proporzioni è crollato dinanzi alla violenta intrusione di un mondo di difformità e asimmetrie. Tra i documenti più antichi della nostra civiltà, è stato da molto tempo notato in posizione di pietra d’angolo il concetto di Ordine.

Ben oltre l’Illuminismo o il Cristianesimo, che si vorrebbero a fondamento dell’Occidente-Europa (da parte di quanti non avvertono l’ingiuria di unificare i due opposti), e anche oltre il mondo classico, noi troviamo il mondo indoeuropeo: qui l’Europa, piuttosto che dell’Occidente, è sposa feconda dell’Oriente.

Indoeuropeismo significa soprattutto verifica che l’Origine è sorta insieme al senso dell’ordinamento, della percezione sensibile della misura e della conformazione al creato. In questi ambiti, il popolo vive la sostanza intima della natura, ne ripete nella socialità gli schemi di complementarietà dei ruoli, non va in cerca di soluzioni astratte, ma vive concretamente nella dimensione di una realtà visibile, cosmica come umana.

Non altrimenti, se non come rispecchiamenti dell’ordine naturale, possono essere giudicati i nostri più antichi documenti identitari, quali i Veda o le Upanishad, che vivono ancora oggi nei vocabolari e nelle lingue delle culture europee.

 

 

 Notava non a caso Adriano Romualdi che nell’inno vedico a Mithra e Varuna (un millennio e mezzo prima di Cristo) si impetravano le energie ordinatrici del cosmo, quali archetipi sul cui metro dare compimento alle edificazioni sociali umane. Tutto è dipeso e ha preso vita inizialmente da questa mattinale consapevolezza che all’uomo non è dato sottrarsi alla sua natura e alle leggi del mondo nel quale si trova “gettato”. Il paganesimo arcaico e quello classico non fecero che ratificare questo dato di fatto.

La sorgente della civiltà europea sgorgò dall’intuizione della presenza dell’Ordine, ovunque e in tutte le cose. C’è sempre una legge che stabilisce i nessi, che dà un limite, che indica un “fin qui e non oltre”. C’è sempre una necessità che regola i rapporti tra le cose, gli uomini e gli eventi. Se ne avessimo lo spazio, sarebbe facile ammassare le prove culturali occorrenti a dimostrare che il sorgere della nostra civiltà – sin nell’esatta rispondenza etimologica tra il rito religioso e politico e l’ordine cosmico – si radica nella legge delle gerarchie e delle aggregazioni tra simili, quali sono presenti in natura.
Basterà un piccolo esempio.

A un certo punto, nella Repubblica di Platone
si parla di due vie: quella che trascina verso il basso e quella che conduce verso l’alto. Platone racconta che la prima è quella battuta da Socrate, allorquando un giorno, per assistere a una festa, scende lungo la strada che porta da Atene, su in alto, al Pireo, giù in basso. Qui al porto, simbolo di mercanteggiamento, di confusione di genti e di caos, ciò che regna è il formicolare dei cittadini e dei forestieri, che in casuale e disordinata comunanza perdono ogni sigillo di nobiltà differenziante.

È il luogo per eccellenza della mescolanza e dell’infrazione, è lo spazio dell’eccezione,
in cui vigono il frammisto e l’incomposto, simboleggiati dai riti stranieri in cui tutti sono uguali.

 

 

Qui, l’Io identitario è a repentaglio, è il kateben, il discendere che esprime l’avventurarsi nell’alieno e nel difforme, paragonato all’Ade, alla perdizione coscienziale, addirittura alla morte. Dopo la festa, Socrate, sensibile al richiamo di ritornare al più presto nel seno della propria polis, si affretta a rientrare in città, a risalire lassù nella sua città, nello scrigno della sua comunità, lungo la via che riconduce in alto, al proprio, al simile e al composto, vincendo le insistenze di certi amici che vorrebbero trattenerlo.

 

 


È questo il racconto allegorico della discesa pericolosa nell’Altro-da-sé, è la simbologia platonica in cui si racconta l’appartenenza politica e filosofica alla polis come vicenda di pericoli da vincere e tentazioni da attraversare con salda tenuta.

 

 

 

 

Essa è parallela al mito di Er, il figlio di Panfilia (“l’amica di tutti”, l’indifferenziata), anch’esso metafora di caduta nella perdizione.

 

 

Eric Voegelin, nel commentare questi passi della Repubblica, nel suo libro Ordine e storia precisò in maniera oltremodo eloquente che si trattava di un tema irto di simboli. Al cui epicentro si trovava la celebrazione dell’Ordine, quale categoria politica e umana giudicata insostituibile. Il “panfilismo” del Pireo – ha scritto Voegelin –, il suo essere luogo egualitario e livellante, dove ognuno è uguale a tutti gli altri, lo rende simile all’Ade, alla morte: «è il “panfilismo” del Pireo che lo rende Ade. L’eguaglianza del porto è la morte di Atene».

 

 

La via che discende, là dove i limiti si frantumano e le differenze si annullano, comporta dunque il precipitare nella morte di Atene. Poiché Atene muore quando muore nel cuore dei suoi cittadini.
Lo stesso significato è presente nella figura del ricco Cefalo, un vecchio incontrato da Socrate, col cui personaggio Platone vuol significare la crisi epocale, la renitenza di una generazione indebolita dinanzi ai valori, la trascuratezza della legge.

 

 

E, anche in questo caso, il simbolo platonico torna a parlare con evidenza:

 

 

«Di colpo diviene manifesto – commentava Voegelin a proposito di questo episodio – che la vecchia generazione ha trascurato di costruire la sostanza dell’ordine nei giovani e un’amabile indifferenza, unita a una certa confusione, si trasforma in pochi anni negli orrori della catastrofe sociale».

 

 

 

 

 

 

Non è possibile seguire oltre questi temi, che sarebbe interessante sviluppare fino in fondo. Ma si sarà capito lo stesso, dai pochi cenni fatti, che è proprio l’Ordine – naturale, interiore, umano, sociale, politico – il nervo sensibile che fu avvertito dalla nostra cultura antica come quello decisivo per assicurare alla Città la sua fortuna, se mantenuto; la sua rovina, se tradito.

 

 

Ora, di fronte a questo ancestrale sentimento prima indoeuropeo, poi ellenico, romano, gotico (si pensi ad es. ai significati di ordinamento cosmico che avevano sia i collegia romani che le corporazioni medievali), si erge il colosso distruttivo del dis-ordine applicato a tutti campi (politico, familiare, sociale, mentale, economico), concepito e realizzato alla fine in America in simultanea con l’idea di mercato liberista.

 

 

Che è considerato come sinonimo di “libertà” perché aperto e senza limiti, in perenne espansione, disumano, annullando con ciò dalle fondamenta il concetto rigoroso di Ordine e di misura.

 

 

Che è innanzi tutto un principio regolatore, un demarcatore, e quindi un discriminatore che fissa leggi, che qui ingloba e là per forza esclude, disponendo frontiere e sbarramenti precisi, logici, ideali come materiali, senza i quali si entra nell’illimite e nel privo di senso, il regno del caos.

 

 

La finale perdita europea dell’onore che è legato all’applicazione dell’Ordine in ogni manifestazione della vita, dopo le iniziali aggressioni del Cristianesimo paolino, dell’Illuminismo e del marxismo, la dobbiamo all’egemonia del pensiero americano di derivazione puritano-utilitarista, incardinato sulla menzognera divulgazione di un’idea di “libertà” che coincide con l’annientamento della personalità individuale e sociale.

 

 

La disintegrazione di ciò che Spengler chiamava ancora “Occidente” data da quando l’America ha distrutto le fondamenta della Tradizione europea, sostituendo ad esse la patologia settaria del totalitarismo capitalista e millenarista. Da un pezzo l’Occidente non parla più con la voce solenne di Platone, ma con quella stridula dei miliardari anabattisti americani travestiti da capi politici.

 

 

Luca Leonello Rimbotti

 

 

 

 

lundi, 20 octobre 2008

Spengler: Atlantis, Kasch et Turan

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Robert Steuckers:

 

Les matrices préhistoriques des civilisations antiques dans l'œuvre posthume de Spengler: Atlantis, Kasch et Turan

Généralement, les morphologies de cultures et de civilisations proposées par Spengler dans son ouvrage le plus célèbre, Le déclin de l'Occident, sont les seules à être connues. Pourtant, ses positions ont changé après l'édition de cette somme. Le germaniste italien Domenico Conte en fait état dans son ouvrage récent sur Spengler. En effet, une étude plus approfondie des textes posthumes édités par Anton Mirko Koktanek, notamment Frühzeit der Weltgeschichte, qui rassemble les fragments d'une œuvre projetée mais jamais achevée, L'épopée de l'Homme.

 

Dans la phase de ses réflexions qui a immédiatement suivi la parution du Déclin de l'Occident, Spengler distinguait quatre stades dans l'histoire de l'humanité, qu'il désignait tout simplement par les quatre premières lettres de l'alphabet: a, b, c et d. Le stade “a” aurait ainsi duré une centaine de milliers d'années, aurait recouvert le paléolithique inférieur et accompagné les premières phases de l'hominisation. C'est au cours de ce stade qu'apparaît l'importance de la “main” pour l'homme. C'est, pour Spengler, l'âge du Granit. Le stade “b” aurait duré une dizaine de milliers d'années et se situerait au paléolithique inférieur, entre 20.000 et 7000/6000 avant notre ère. C'est au cours de cet âge que naît la notion de vie intérieure; apparaît “alors la véritable âme, inconnue des hommes du stade “a” tout comme elle est inconnue du nouveau-né”. C'est à partir de ce moment-là de son histoire que l'homme “est capable de produire des traces/souvenirs” et de comprendre le phénomène de la mort. Pour Spengler, c'est l'âge du Cristal. Les stades “a” et “b” sont anorganiques.

 

Le stade “c” a une durée de 3500 années: il commence avec le néolithique, à partir du sixième millénaire et jusqu'au troisième. C'est le stade où la pensée commence à s'articuler sur le langage et où les réalisations techniques les plus complexes deviennent possibles. Naissent alors les “cultures” dont les structures sont de type “amibien”. Le stade “d” est celui de l'“histoire mondiale” au sens conventionnel du terme. C'est celui des “grandes civilisations”, dont chacune dure environ 1000 ans. Ces civilisations ont des structures de type “végétal”. Les stades “c” et “d” sont organiques.

 

Spengler préférait cette classification psychologique-morphologique aux classifications imposées par les directeurs de musée qui subdivisaient les ères préhistoriques et historiques selon les matériaux utilisés pour la fabrication d'outils (pierre, bronze, fer). Spengler rejette aussi, à la suite de cette classification psychologique-morphologique, les visions trop évolutionnistes de l'histoire humaine: celles-ci, trop tributaires des idéaux faibles du XVIIIième siècle, induisaient l'idée “d'une transformation lente, flegmatique” du donné naturel, qui était peut-être évidente pour l'Anglais (du XVIIIième), mais incompatible avec la nature. L'évolution, pour Spengler, se fait à coup de catastrophes, d'irruptions soudaines, de mutations inattendues. «L'histoire du monde procède de catastrophes en catastrophes, sans se soucier de savoir si nous sommes en mesure de les comprendre. Aujourd'hui, avec H. de Vries, nous les appelons “mutations”. Il s'agit d'une transformation interne, qui affecte à l'improviste tous les exemplaires d'une espèce, sans “causes”, naturellement, comme pour toutes les choses dans la réalité. Tel est le rythme mystérieux du réel» (L'homme et la technique). Il n'y a donc pas d'évolution lente mais des transformations brusques, “épocales”. Natura facit saltus.

 

trois cultures-amibes

 

Dans le stade “c”, où émergent véritablement les matrices de la civilisation humaine, Spengler distingue trois “cultures-amibes”: Atlantis, Kasch et Turan. Cette terminologie n'apparaît que dans ses écrits posthumes et dans ses lettres. Les matrices civilisationnelles sont “amibes”, et non “plantes”, parce que les amibes sont mobiles, ne sont pas ancrées dans une terre précise. L'amibe est un organisme qui émet continuellement ses pseudopodes dans sa périphérie, en changeant sans cesse de forme. Ensuite, l'amibe se subdivise justement à la façon des amibes, produisant de nouvelles individualités qui s'éloignent de l'amibe-mère. Cette analogie implique que l'on ne peut pas délimiter avec précision le territoire d'une civilisation du stade “c”, parce que ses émanations de mode amibien peuvent être fort dispersées dans l'espace, fort éloignées de l'amibe-mère.

 

“Atlantis” est l'“Ouest” et s'étend de l'Irlande à l'Egypte; “Kasch” est le “Sud-Est”, une région comprise entre l'Inde et la Mer Rouge. “Turan” est le “Nord”, s'étendant de l'Europe centrale à la Chine. Spengler, explique Conte, a choisi cette terminologie rappelant d'“anciens noms mythologiques” afin de ne pas les confondre avec des espaces historiques ultérieurs, de type “végétal”, bien situés et circonscrits dans la géographie, alors qu'eux-mêmes sont dispersés et non localisables précisément.

 

Spengler ne croit pas au mythe platonicien de l'Atlantide, en un continent englouti, mais constate qu'un ensemble de sédiments civilisationnels sont repérables à l'Ouest, de l'Irlande à l'Egypte. ‘Kasch” est un nom que l'on retrouve dans l'Ancien Testament pour désigner le territoire de l'antique Nubie, région habitée par les Kaschites. Mais Spengler place la culture-amibe “Kasch” plus à l'Est, dans une région s'articulant entre le Turkestan, la Perse et l'Inde, sans doute en s'inspirant de l'anthropologue Frobenius. Quant à “Turan”, c'est le “Nord”, le haut-plateau touranique, qu'il pensait être le berceau des langues indo-européennes et ouralo-altaïques. C'est de là que sont parties les migrations de peuples “nordiques” (il n'y a nulle connotation racialisante chez Spengler) qui ont déboulé sur l'Europe, l'Inde et la Chine.

 

Atlantis: chaude et mobile; Kasch: tropicale et repue

 

Atlantis, Kasch et Turan sont des cultures porteuses de principes morphologiques, émergeant principalement dans les sphères de la religion et des arts. La religiosité d'Atlantis est “chaude et mobile”, centrée sur le culte des morts et sur la prééminence de la sphère ultra-tellurique. Les formes de sépultures, note Conte, témoignent du rapport intense avec le monde des morts: les tombes accusent toujours un fort relief, ou sont monumentales; les défunts sont embaumés et momifiés; on leur laisse ou apporte de la nourriture. Ce rapport obsessionnel avec la chaîne des ancêtres porte Spengler à théoriser la présence d'un principe “généalogique”. Les expressions artistiques d'Atlantis, ajoute Conte, sont centrées sur les constructions de pierre, gigantesques dans la mesure du possible, faites pour l'éternité, signes d'un sentiment de la vie qui n'est pas tourné vers un dépassement héroïque des limites, mais vers une sorte de “complaisance inerte”.

 

Kasch développe une religion “tropicale” et “repue”. Le problème de la vie ultra-tellurique est appréhendé avec une angoisse nettement moindre que dans Atlantis, car, dans la culture-amibe de Kasch domine une mathématique du cosmos (dont Babylone sera l'expression la plus grandiose), où les choses sont d'avance “rigidement déterminées”. La vie d'après la mort suscite l'indifférence. Si Atlantis est une “culture des tombes”, en Kasch, les tombes n'ont aucune signification. On y vit et on y procrée mais on y oublie les morts. Le symbole central de Kasch est le temple, d'où les prêtres scrutent la mathématique céleste. Si en Atlantis domine le principe généalogique, si les dieux et les déesses d'Atlantis sont père, mère, fils, fille, en Kasch, les divinités sont des astres. Y domine un principe cosmologique.

 

Turan: la civilisation des héros

 

Turan est la civilisation des héros, animée par une religiosité “froide”, axée sur le sens mystérieux de l'existence. La nature y est emplie de puissances impersonnelles. Pour la culture-amibe de Turan, la vie est un champ de bataille: “pour l'homme de ce Nord (Achille, Siegfried)”, écrit Spengler, “seule compte la vie avant la mort, la lutte contre le destin”. Le rapport hommes/divin n'est plus un rapport de dépendance: “la prostration cesse, la tête reste droite et haute; il y a “moi” (homme) et vous (les dieux)”. Les fils sont appelés à garder la mémoire de leurs pères mais ne laissent pas de nourriture à leurs cadavres. Pas d'embaumement ni de momification dans cette culture, mais incinération: les corps disparaissent, sont cachés dans des sépultures souterraines sans relief ou dispersés aux quatre vents. Seul demeure le sang du défunt, qui coule dans les veines de ses descendants. Turan est donc une culture sans architecture, où temples et sépultures n'ont pas d'importance et où seul compte un sens terrestre de l'existence. L'homme vit seul, confronté à lui-même, dans sa maison de bois ou de torchis ou dans sa tente de nomade.

 

Le char de combat

 

Spengler porte toute sa sympathie à cette culture-amibe de Turan, dont les porteurs aiment la vie aventureuse, sont animés par une volonté implaccable, sont violents et dépourvus de sentimentalité vaine. Ils sont des “hommes de faits”. Les divers peuples de Turan ne sont pas liés par des liens de sang, ni par une langue commune. Spengler n'a cure des recherches archéologiques et linguistiques visant à retrouver la patrie originelle des Indo-Européens ou à reconstituer la langue-source de tous les idiomes indo-européens actuels: le lien qui unit les peuples de Turan est technique, c'est l'utilisation du char de combat. Dans une conférence prononcée à Munich le 6 février 1934, et intitulée Der Streitwagen und seine Bedeutung für den Gang der Weltgeschichte (= Le char de combat et sa signification pour le cours de l'histoire mondiale), Spengler explique que cette arme constitue la clef pour comprendre l'histoire du second millénaire avant J.C.. C'est, dit-il, la première arme complexe: il faut un char (à deux roues et non un chariot à quatre roues moins mobile), un animal domestiqué et attelé, une préparation minutieuse du guerrier qui frappera désormais ses ennemis de haut en bas. Avec le char naît un type d'homme nouveau. Le char de combat est une invention révolutionnaire sur le plan militaire, mais aussi le principe formateur d'une humanité nouvelle. Les guerriers deviennent professionnels, tant les techiques qu'ils sont appelés à manier sont complexes, et se rassemblent au sein d'une caste qui aime le risque et l'aventure; ils font de la guerre le sens de leur vie.

 

L'arrivée de ces castes de “charistes” impétueux bouleversent l'ordre de cette très haute antiquité: en Grèce, ils bousculent les Achéiens, s'installent à Mycène; en Egypte, ce sont les Hyksos qui déferlent. Plus à l'Est, les Cassites se jettent sur Babylone. En Inde, les Aryens déboulent dans le sous-continent, “détruisent les cités” et s'installent sur les débris des civilisations dites de Mohenjo Daro et d'Harappa. En Chine, les Tchou arrivent au nord, montés sur leurs chars, comme leurs homologues grecs et hyksos. A partir de 1200, les principes guerriers règnent en Chine, en Inde et dans le monde antique de la Méditerranée. Les Hyksos et les Kassites détruisent les deux plus vieilles civilisations du Sud. Emergent alors trois nouvelles civilisations portées par les “charistes dominateurs”: la civilisation greco-romaine, la civilisation aryenne d'Inde et la civilisation chinoise issue des Tchou. Ces nouvelles civilisations, dont le principe est venu du Nord, de Turan, sont “plus viriles et énergiques que celles nées sur les rives du Nil et de l'Euphrate”. Mais les guerriers charistes succomberont aux séductions du Sud amollissant, déplore Spengler.

 

Un substrat héroïque commun

 

Cette théorie, Spengler l'a élaborée en accord avec le sinologue Gustav Haloun: il y a eu quasi simultanéité entre les invasions de Grèce, des Hyksos, de l'Inde et de la Chine. Spengler et Haloun estiment donc qu'il y a un substrat commun, guerrier et chariste, aux civilisations méditerranéenne, indienne et chinoise. Ce substrat est “héroïque”, comme le prouve les armes de Turan. Elles sont différentes de celles d'Atlantis: ce sont, outre le char, l'épée ou la hache, impliquant des duels entre combattants, alors qu'en Atlantis, les armes sont l'arc et la flèche, que Spengler juge “viles” car elles permettent d'éviter la confrontation physique directe avec l'adversaire, “de le regarder droit dans les yeux”. Dans la mythologie grecque, estime Spengler, arc et flèches sont autant d'indices d'un passé et d'influences pré-helléniques: Apollon-archer est originaire d'Asie Mineure, Artemis est libyque, tout comme Héraklès, etc. Le javelot est également “atlante”, tandis que la lance de choc est “touranique”. Pour comprendre ces époques éloignées, l'étude des armes est plus instructive que celle des ustensiles de cuisine ou des bijoux, conclut Spengler.

 

L'âme touranique dérive aussi d'un climat particulier et d'un paysage hostile: l'homme doit lutter sans cesse contre les éléments, devient ainsi plus dur, plus froid et plus hivernal. L'homme n'est pas seulement le produit d'une “chaîne généalogique”, il l'est tout autant d'un “paysage”. La rigueur climatique développe la “force de l'âme”. Les tropiques amolissent les caractères, les rapprochent d'une nature perçue comme plus maternante, favorisent les valeurs féminines.

 

Les écrits tardifs de Spengler et sa correspondance indiquent donc que ses positions ont changé après la parution du Déclin de l'Occident, où il survalorisait la civilisation faustienne, au détriment notamment de la civilisation antique. La focalisation de sa pensée sur le “char de combat” donne une dimension nouvelle à sa vision de l'histoire: l'homme grec et l'homme romain, l'homme indien-aryen et l'homme chinois, retrouvent tous grâce à ses yeux. La momification des pharaons était considérée dans Le déclin de l'Occident, comme l'expression égyptienne d'une volonté de durée, qu'il opposait à l'oubli impliqué par l'incinération indienne. Plus tard, la momification “atlante” déchoit à ses yeux au rang d'une obsession de l'au-delà, signalant une incapacité à affronter la vie terrestre. L'incinération “touranique”, en revanche, indique alors une volonté de concentrer ses efforts sur la vie réelle.

 

Un changement d'optique dicté par les circonstances?

 

La conception polycentrique, relativiste, non-eurocentrique et non-évolutionniste de l'histoire chez le Spengler du Déclin de l'Occident a fasciné des chercheurs et des anthropologues n'appartenant pas aux milieux de la droite allemande, notamment Alfred L. Kroeber ou Ruth F. Benedict. L'insistance sur le rôle historique majeur des castes de charistes de combat donne à l'œuvre tardive de Spengler une dimension plus guerrière, plus violente, plus mobile que ne recelait pas encore son Déclin. Doit-on attribuer ce changement de perspective à la situation de l'Allemagne vaincue, qui cherche à s'allier avec la jeune URSS (dans une perspective eurasienne-touranienne?), avec l'Inde en révolte contre la Grande-Bretagne (qu'il incluait auparavant dans la “civilisation faustienne”, à laquelle il donnera ensuite beaucoup moins d'importance), avec la Chine des “grands chefs de guerre”, parfois armés et encadrés par des officiers allemands? Spengler, par le biais de sa conférence, a-t-il cherché à donner une mythologie commune aux officiers ou aux révolutionnaires allemands, russes, chinois, mongols, indiens, afin de forger une prochaine fraternité d'arme, tout comme les “eurasistes” russes tentaient de donner à la nouvelle Russie soviétique une mythologie similaire, impliquant la réconciliation des Turco-Touraniens et des Slaves? La valorisation radicale du corps à corps “touranique” est-elle un écho au culte de l'“assaut” que l'on retrouvait dans le “nationalisme soldatique”, notamment celui des frères Jünger et de Schauwecker?

 

Enfin, pourquoi n'a-t-il rien écrit sur les Scythes, peuples de guerriers intrépides, maîtres des techniques équestres, qui fascinaient les Russes et sans doute, parmi eux, les théoriciens de l'eurasisme? Dernière question: le peu d'insistance sur les facteurs raciaux dans ce Spengler tardif est-il dû à un sentiment rancunier à l'égard des cousins anglais qui avaient trahi la solidarité germanique et à une mythologie nouvelle, où les peuples cavaliers du continent, toutes ethnies confondues (Mongols, Turco-Touraniens, descendants des Scythes, Cosaques et uhlans germaniques), devaient conjuguer leurs efforts contre les civilisations corrompues de l'Ouest et du Sud et contre les thalassocraties anglo-saxonnes? Les parallèles évident entre la mise en exergue du “char de combat” et certaines thèses de L'homme et la technique, ne sont-ils pas une concession à l'idéologie futuriste ambiante, dans la mesure où elle donne une explication technique et non plus religieuse à la culture-amibe touranienne? Autant de thèmes que l'histoire des idées devra clarifier en profondeur...

 

Robert STEUCKERS.

 

Domenico CONTE, Catene di civiltà. Studi su Spengler, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1994, 394 p., Lire 58.000, ISBN 88-7104-242-924-1.